Anoressia e bulimia.

“Malattie d’amore”.

 

Se per il DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) l’anoressia e la bulimia sono fenomeni distinti, da una prospettiva dinamica costituiscono in realtà due facce della stessa medaglia: sono forme di sofferenza connesse alla percezione di una carenza d’amore.

Questo non significa che le storie di chi soffre di anoressia e bulimia raccontino la mancanza totale dell’amore, anche se è sempre possibile, ma piuttosto un particolare modo di esprimere l’amore: non dono gratuito all’altro per quello che è nella sua irriducibile diversità, ma un concreto dare qualcosa. Dare cibo, cure, regali, istruzione, ecc.

Dunque una persona può essere amata con tutta la dedizione possibile, ma può aver sentito prevalere la cura dei bisogni materiali sull’espressione di un amore incondizionato, sviluppando magari la convinzione di dover essere perfetto per meritare amore e riconoscimento, di avere il pieno controllo rispetto ai propri capricci.

Rifiutare il cibo o al contrario abbuffarsi fino a vomitare sotto questa luce assumono un senso, appaiono un po’ meno enigmatici.

Chi soffre di anoressia tenta di rompere l’equivalenza fra il dare e l’amare. Se ogni sintomo è un messaggio indirizzato a qualcuno, chi soffre di anoressia sembra dire: Non voglio niente! Amami per quello che sono! È un modo per attrarre su di sé un interesse gratuito, diventare trasparenti come tentativo paradossale di essere visti nella propria unicità irripetibile.

Attraverso il controllo del peso e delle calorie si può inoltre cercare di realizzare un bisogno ideale di perfezione e di separazione dall’altro, un modo patologico non solo per gli effetti distruttivi sulla salute, ma anche perché dimostra infondo la permanenza di una forte dipendenza dalle aspettative dell’altro.

Nella bulimia la spinta a divorare tutto mostra il ritorno dell’imperfezione che si tentava di cancellare, testimonia di una intollerabile fragilità. Chi soffre di bulimia riconduce la carenza d’amore che sente dentro di sé al vuoto nello stomaco e cerca di colmarla attraverso le abbuffate, cui segue invariabilmente il vomito a dimostrazione del fatto che nessuna quantità di cibo può farci sentire appagati. La crisi dell’abbuffata segnala in ogni caso un cedimento della volontà, un abbandono totale ai bisogni di dipendenza, ancora una volta un grido d’amore.

La cura di questa malattia dell’amore (nella definizione di Recalcati) non può che essere non sul piano del mangiare o non mangiare, ma su quello del non chiedere niente, dell’esserci.

La terapia non ha niente a che fare con l’accanirsi perché l’altro mangi, di fatto eliminando con il sintomo l’unica modalità di espressione del dolore, piuttosto occorre la vera origine della sofferenza, spesso nascosta da sensi di colpa, dalla spinta alla performance, dal vivere non per se stessi ma per l’altro. Si tratta di riaprire una dimensione personale, soggettiva, al di là delle attese altrui.