Razionalmente siamo portati a pensare che il sintomo di cui soffriamo sia un intralcio del quale liberarsi al più presto, che l’ansia, il panico, la depressione, le paure, siano nemici da combattere, e così ci sentiamo arrabbiati e frustrati perché ne veniamo continuamente sconfitti.

La realtà, tuttavia, è un’altra. Il sintomo è un adattamento, una tentata soluzione ad un malessere più profondo e meno consapevole: è il sintomo, paradossalmente, che ci tiene a galla.

Un sintomo è un segnale, un’espressione di questa sofferenza invisibile, aggrovigliata e confusa, spesso muta perché non ha le parole per raccontarsi; è un modo di esprimere qualcosa di noi stessi e una comunicazione che facciamo all’altro, della quale noi per primi non sappiamo il significato e che, inevitabilmente, viene fraintesa. Ogni sintomo è una forma di comunicazione, scriveva Watzlawick (1967).

Ma soprattutto le ferite che ciascuno di noi ha iscritte profondamente dentro di sé possono diventare, riprendendo un’immagine di Carotenuto (1998) che mi è sempre piaciuta, feritoie, minuscoli varchi che ci consentono di tenere d’occhio il nostro mondo interiore, di scrutare e indagare la parte più misteriosa e segreta di noi, la parte sommersa e difficilmente accessibile. Ed è attingendo a questa parte di noi stessi che troviamo la risposta alla continua ricerca di un senso da assegnare alla vita: la realizzazione di una nostra autenticità.

I momenti di crisi, siano essi in età adolescenziale o adulta possono essere trasformati in occasioni per guadagnare consapevolezza. L’ostacolo genera ricerca, la mancanza anima il processo di crescita e permette di individuare strade personali e uniche, lontane dai percorsi già stabiliti da qualcun altro sulla base di un ideale di norma a cui bisogna per forza corrispondere.

Il dolore e la sofferenza non sono corpi estranei da asportare chirurgicamente, intrusi da eliminare per ristabilire un ideale equilibrio interiore libero da tensioni e conflitti, piuttosto è a partire dalla possibilità di sentire e stare nella sofferenza che se ne può comprendere l’origine, il senso, e trasformarla in possibilità nuove. La terapia non risponde direttamente al dolore, perché il dolore è ineliminabile, è parte della vita. Quello che scopriamo in terapia è che il mio dolore è lo stimolo per l’individuazione della mia diversità.

La psicoanalisi aiuta a distanziarsi dall'idea che la fragilità umana sia qualcosa da rifiutare perché fa capire come sia un aspetto che fa parte dell'uomo, con il quale si tratta di fare i conti.

L'accettazione dei propri limiti in quanto esseri umani non spinge a rinunciare alla realizzazione personale, tutt'altro. Sarà paradossale, ma è proprio nell’imperfezione e nell’insoddisfazione che si percepisce il principio creatore e trasformativo: l’imperfezione del quadro d’autore lo rende unico e irripetibile, le fratture e le crepe rendono preziosi e unici gli oggetti nella pratica giapponese del kintsugi, e non è forse da una “caduta” che ha avuto origine la vita?

Mi ha immediatamente convinta la Donner (2019) con la sua interpretazione dei famosi versi di Beckett: Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better. La bellezza sta nell’insuccesso, nell’imperfezione di ogni tentativo e di ogni risultato: è l’errore che rende tale l’essere umano. Danzare, inciampare, cadere e celebrarlo con un’ode, se possibile con stile.