Mi accorgo spesso che la parola gruppoanalisi viene in qualche modo identificata e sovrapposta alla terapia di gruppo, ma non è così: la gruppoanalisi è una teoria della mente, una teoria del modo in cui la mente funziona. Uno specialista formato in gruppoanalisi può poi decidere di utilizzare lo strumento della psicoterapia di gruppo, oppure un setting individuale o anche quello di coppia o familiare: la teoria del funzionamento mentale cui si fa riferimento guiderà l’agire terapeutico qualsiasi strumento si scelga in base alle esigenze del contesto.

 

L’ipotesi che istituisce lo specifico delle teorie gruppoanalitiche è l’esistenza di fenomeni transpersonali, ovvero si concepisce la condizione umana nel suo primario “essere con”: ogni persona è tale in quanto in relazione, in un campo costituito da matrici di senso che organizzano lo psichismo della relazione stessa e che rimandano continuamente a simbolismi personali, storici, culturali come si sono venuti configurando nel corso della vita a partire dagli anni di vita in famiglia.

La nascita della mente è quindi un evento essenzialmente gruppale: l’uomo, per sua natura incompleto, inventa l’ambiente in cui vive.

Molto prima di sapere che mi sarei specializzata in gruppoanalisi, mi era rimasta impressa una analogia proposta da Carotenuto (1986): nelle prime pagine de La critica della ragion pura, Kant introduce l’immagine della colomba convinta che volerebbe molto meglio se non ci fosse a frenarla la resistenza dell’aria, mentre è proprio la resistenza dell’aria che le consente di trasformare in volo il battere delle ali. Allo stesso modo, si può rispondere a chiunque pensi che se non ci fossero gli altri a “opporre resistenza”, a intralciare e frenare la nostra crescita, il nostro volo si dispiegherebbe più liberamente. A parte l’obiezione che in ogni caso gli altri ci sono e ognuno di loro avrebbe il diritto di fare lo stesso discorso, la verità è che se non ci fossero gli altri nessuno riuscirebbe a volare. L’elemento su cui fa leva la nostra crescita è esattamente il rapporto con gli altri.

La famiglia si inserisce in questa storia come elemento fondamentale e primario: è un apparato di continuità, di perpetuazione dei contenuti culturali, antropologici e sociali, e contemporaneamente di discontinuità, di trasformazione di questi contenuti. Sono i sistemi di riferimento familiari a permettere di capire e significare quello che accade, l’inatteso e lo sconosciuto, organizzando per il bambino il mondo con la sua molteplicità di codici, insegnandogli il senso delle cose, fornendogli le categorie di bene e di male.

Alla nascita, e a ben vedere ancora prima, il bambino riceve un certo numero di messaggi: gli si trasmettono un cognome e un nome di battesimo, aspettative legate al sesso, al ruolo e ai compiti che dovrà assumersi o evitare. Come le fate intorno alla culla della Bella Addormentata nel Bosco, verranno predetti, o taciuti in un non-detto segreto e pesante, scenari, immagini, doveri, successi e fallimenti, l’intero racconto di un avvenire che contribuirà a “programmare” il piccolo che sta nascendo. In seguito, la famiglia e i vicini contribuiranno a fissare questo programma nella psiche del bambino così il patrimonio interiore verrà via via arricchito dalle successive esperienze sociali e relazionali, tanto più quanto più il bambino sarà stato in grado di costruirsi una propria identità.

Perché questo sia possibile è necessario che all’interno della dinamica familiare esista un particolare spazio che consenta alla mente in formazione di giocare con i propri pensieri e di crearne di nuovi, di poter pensare il pensiero familiare, di far nascere, cioè, il soggetto: il bambino diventa persona quando può trasformare simbolicamente in nuovi significati la cultura familiare.

Come Sapiens Sapiens abbiamo ereditato dai nostri antenati la singolare capacità di rappresentarci il mondo non solo sotto forma di presente, passato prossimo e futuro immediato, ma anche di passato remoto e di futuro altrettanto remoto. Siamo in grado di rievocare tempi lontanissimi e di raffigurarci traguardi altrettanto lontani. Siamo capaci, insomma, non solo di tattiche e strategie, ma anche di progetti. Questo vuol dire che in ogni individuo accanto all’idea che ha di sé, di quello che è stato e di quello che è in ogni momento della propria vita, vive anche l’idea e l’immagine, il progetto, di quello che vorrebbe/gli è stato predetto essere. Lo “scarto” tra questi due Sé è esattamente lo spazio in cui crescere.

Rompere il cordone ombelicale, differenziare Sé dall’Altro, è questo il compito faticoso assegnato ad ogni individuo perché possiamo acquisire, all’interno di questa lunga discendenza che ci viene trasmessa, la nostra identità.